Non ho foto del tuo cinquantesimo compleanno. Ho ancora però stampato in testa come se fosse ieri tu che non stavi bene e che rientravi in ospedale, nonostante il trapianto che era andato a buon fine due mesi prima, e io che avevo passato tutto il giorno prima a usare un programmino dentro un cd della Disney uscito con Topolino per farti un “Auguri Papà” dove ogni lettera era grande come un foglio A4 ed era disegnata con lo stile grafico di Hercules. Rigorosamente in bianco e nero, si intende, perché all’epoca, era il 2002, io me la viaggiavo con un Pentium III con su Windows 98 e in casa avevamo solo una LaserJet che a colori aveva solo il loghino sul fronte.
Sapevamo già che dovevi rientrare in ospedale, per questo mi ero dato tanto da fare e mi ero svegliato all’alba per appendere con lo scotch quei fogli sul mobile dell’ingresso: non avevo un regalo da farti, né avremmo potuto festeggiare insieme il compleanno. Ricordo solo il tuo sorriso, prima di girarti e uscire dalla porta di casa. Non mi hai detto né grazie né mi hai abbracciato, hai solo sorriso. La sera andavi in coma. Ti davano già per morto quando ti sei svegliato, non ricordo dopo quanti giorni, ed era anche per questo che io ero tranquillo, quando l’11 giugno successivo te ne sei andato di nuovo da casa perché era tornata la malattia, anche se quella volta mi hai abbracciato e ti sei messo a piangere. Io non capivo, ero talmente certo di vederti tornare che probabilmente scambiarono questa mia sicurezza per menefreghismo quando agli esami di terza media con assoluta tranquillità feci tutto quello che dovevo fare senza tradire un’emozione.
“Stai bene?”, mi chiedevano, come se fossi io il malato. “Certo, come dovrei stare?”, rispondevo seccato. Il giorno del tuo cinquantesimo compleanno no, non stavo bene. Perché nonostante l’impegno quella misera scritta mi sembrava troppo poco rispetto a quello che io e Lalli avevamo fatto per i 50 anni di mamma, due anni prima. So che non ti interessava, che non ti è mai interessato. Ma a me sì: ogni dannato 26 settembre da 15 anni io rimpiango di non avere una foto con te e di non averti regalato nulla per il tuo compleanno. Ora capiranno gli amici del perché fotografo e perché sono fissato coi regali ai compleanni, che fosse anche una stupidata devo farli.
Quest’anno però ho forse trovato un regalo: sarebbero stati 65, ma da 14 oramai ne compi sempre 50. Ha a che fare con la seconda parte di quanto mi hai fatto mantenere in punto di morte, la parte sulla prosecuzione degli studi. Pochi minuti fa, dopo la mezzanotte, mi sono immatricolato al Dottorato in Studi sulla Criminalità Organizzata. Ho forse esagerato con l’osservanza alla seconda parte della promessa, ma la prima, che è quella più importante, diceva che dovevo essere onesto, anzitutto con me stesso. E di fronte a chi mi dice “chi te lo fa fare”, posso rispondere con orgoglio che faccio quello che mi piace. Che è la stessa cosa che rispondevi tu, che mi hai insegnato a tenere la schiena dritta e a non farmi mai mettere i piedi in testa da nessuno, perché non c’è status, classe, cognome o portafogli che possa valere di più della dignità di un uomo che fa onestamente il proprio mestiere.
Ho deciso di aggiungere un pezzo alla mia vita, da oggi in poi, ai prossimi 26 settembre: il giorno del tuo compleanno e il giorno in cui mi sono immatricolato al dottorato. E oggi, quindici anni dopo, voglio scrivertelo a colori: Auguri, Papà.
Il regalo che non ti ho fatto
Non ho foto del tuo cinquantesimo compleanno. Ho ancora però stampato in testa come se fosse ieri tu che non stavi bene e che rientravi in ospedale, nonostante il trapianto che era andato a buon fine due mesi prima, e io che avevo passato tutto il giorno prima a usare un programmino dentro un cd della Disney uscito con Topolino per farti un “Auguri Papà” dove ogni lettera era grande come un foglio A4 ed era disegnata con lo stile grafico di Hercules. Rigorosamente in bianco e nero, si intende, perché all’epoca, era il 2002, io me la viaggiavo con un Pentium III con su Windows 98 e in casa avevamo solo una LaserJet che a colori aveva solo il loghino sul fronte.
Sapevamo già che dovevi rientrare in ospedale, per questo mi ero dato tanto da fare e mi ero svegliato all’alba per appendere con lo scotch quei fogli sul mobile dell’ingresso: non avevo un regalo da farti, né avremmo potuto festeggiare insieme il compleanno. Ricordo solo il tuo sorriso, prima di girarti e uscire dalla porta di casa. Non mi hai detto né grazie né mi hai abbracciato, hai solo sorriso. La sera andavi in coma. Ti davano già per morto quando ti sei svegliato, non ricordo dopo quanti giorni, ed era anche per questo che io ero tranquillo, quando l’11 giugno successivo te ne sei andato di nuovo da casa perché era tornata la malattia, anche se quella volta mi hai abbracciato e ti sei messo a piangere. Io non capivo, ero talmente certo di vederti tornare che probabilmente scambiarono questa mia sicurezza per menefreghismo quando agli esami di terza media con assoluta tranquillità feci tutto quello che dovevo fare senza tradire un’emozione.
“Stai bene?”, mi chiedevano, come se fossi io il malato. “Certo, come dovrei stare?”, rispondevo seccato. Il giorno del tuo cinquantesimo compleanno no, non stavo bene. Perché nonostante l’impegno quella misera scritta mi sembrava troppo poco rispetto a quello che io e Lalli avevamo fatto per i 50 anni di mamma, due anni prima. So che non ti interessava, che non ti è mai interessato. Ma a me sì: ogni dannato 26 settembre da 15 anni io rimpiango di non avere una foto con te e di non averti regalato nulla per il tuo compleanno. Ora capiranno gli amici del perché fotografo e perché sono fissato coi regali ai compleanni, che fosse anche una stupidata devo farli.
Quest’anno però ho forse trovato un regalo: sarebbero stati 65, ma da 14 oramai ne compi sempre 50. Ha a che fare con la seconda parte di quanto mi hai fatto mantenere in punto di morte, la parte sulla prosecuzione degli studi. Pochi minuti fa, dopo la mezzanotte, mi sono immatricolato al Dottorato in Studi sulla Criminalità Organizzata. Ho forse esagerato con l’osservanza alla seconda parte della promessa, ma la prima, che è quella più importante, diceva che dovevo essere onesto, anzitutto con me stesso. E di fronte a chi mi dice “chi te lo fa fare”, posso rispondere con orgoglio che faccio quello che mi piace. Che è la stessa cosa che rispondevi tu, che mi hai insegnato a tenere la schiena dritta e a non farmi mai mettere i piedi in testa da nessuno, perché non c’è status, classe, cognome o portafogli che possa valere di più della dignità di un uomo che fa onestamente il proprio mestiere.
Ho deciso di aggiungere un pezzo alla mia vita, da oggi in poi, ai prossimi 26 settembre: il giorno del tuo compleanno e il giorno in cui mi sono immatricolato al dottorato. E oggi, quindici anni dopo, voglio scrivertelo a colori: Auguri, Papà.